La Ricerca è speranza. Ricordando papà Nicola

È difficile parlare di SLA, è difficile spiegare cosa significa assistere un familiare con questa malattia e spiegare come ci si senta. Mio papà, Nicola, è morto il 14 dicembre 2021, dopo solo un anno e mezzo dalla diagnosi, da quelle parole scritte sulla cartella clinica: “sospetto SLA”.

Sclerosi Laterale Amiotrofica: “una malattia neurodegenerativa progressiva che determina la perdita dei motoneuroni spinali, bulbari e corticali, che conduce alla paralisi dei muscoli volontari fino a coinvolgere anche quelli respiratori”. Ho letto questa definizione tante e tante volte. In parole spicciole, ogni muscolo del tuo corpo non riesce a fare più il proprio lavoro, si atrofizza e rimani rigido, senza poterti muovere. Una malattia che compromette il movimento, ma che termina con il coinvolgimento dei muscoli respiratori. La morte è il soffocamento.

Una parola nella mia testa continuava a risuonare “NEURODEGENERATIVA”, “DEGENERATIVA”. Cosa voleva dire? La malattia va avanti, non ci sono cure, non c’è possibilità di migliorare, non ci sono soluzioni a livello terapeutico per la guarigione, in pratica… una “condanna a morte”.

Una volta confermata la malattia, le sue dimissioni furono rapide. Fu un susseguirsi di visite, prima dal neurologo, che gli ha prescritto un farmaco che doveva prendere due volte al giorno, ogni giorno, dopo da una dottoressa, pneumologa, all’Ospedale Cervello di Palermo. Lei doveva ricoverarlo, doveva conoscere il suo quadro clinico per poterlo seguire anche da casa e per diventare a tutti gli effetti il suo medico.

Ma le tragedie non vengono mai da sole. Infatti, scoppia la pandemia dovuta al Covid-19: reparti blindati, ospedali adibiti ai malati covid, cancellati tutti i ricoveri programmati. Non si poteva uscire di casa. Il sistema immunitario di mio padre era compromesso, quindi cercava di uscire poco. Quei mesi furono terribili. Cucinavo insieme a lui, gli preparavo la pasta piccola, cercavo di fargli cose morbide per poter deglutire meglio, ma puntualmente lui si affogava con il cibo. Era un vero calvario. Era l’inferno.

Mi ricordo una frase che mi disse: “Vorrei bere una bottiglia di acqua, ma non riesco a deglutire, mi affogo”; aveva le lacrime agli occhi quando la disse. Mio padre aveva sete e non riusciva a bere. Iniziò a perdere peso, arrivando a pesare 54 kg. Per fortuna un angelo di dottoressa riuscì a ricoverarlo nel reparto pneumologia dell’ospedale, gli misero la PEG, ovvero un tubicino messo nello stomaco che collegato ad una pompa gli permetteva di mangiare e gli diedero la NIV, una macchina che, tramite mascherina, lo aiutava ad ampliare i polmoni e a farlo respirare. Stette lì poco meno di un mese. Da qui iniziò la vera malattia. Un susseguirsi di visite in casa, infermiera, logopedista, fisioterapista medici e tanto altro. Fino a quando si arrivò alla scelta se sottoporsi o no alla tracheotomia. La malattia di mio papà non partì con l’immobilizzazione degli arti, ma a livello polmonare, fino a qualche settimana prima della morte riusciva con un aiuto ad andare al bagno, a fare una passeggiata sempre con qualche macchinetta dietro. Lo portavamo a vedere il mare a pochi metri da casa e lui era felice.

Mio padre era un uomo dedito al lavoro, adorava sentire i suoi colleghi e si sentiva utile aiutandoli seppur in un letto. Adorava comunicare con tutti, inviare sms e far sentire la sua presenza e il suo supporto a tutto coloro che ne avevano bisogno. Mio papà era una persona speciale, con una voglia di vivere tutto ciò che gli stava intorno fuori dal normale. Mi ha insegnato che la Vita è un dono speciale, anche di fronte al limite imposto dalla malattia, era grato di tutto quello che aveva vissuto fino a quel momento.

Tutto era regolare, non c’erano crisi importanti e sentire quelle parole mi diede una spinta per renderlo orgoglioso. Così partii per iniziare uno stage a Parma. Cercavo di coinvolgerlo, anche a distanza, lui era sempre con me, nei miei momenti di gioia e di crisi, mi aiutava a risolvere i problemi e mi diceva sempre di non preoccuparmi, che lui se la cavava. Mi insegnava ogni giorno ad essere me stessa, come ha fatto per tutta la mia vita e allo stesso mi insegnava ad imparare dai miei errori, di crescere sempre di più ed io, inconsapevolmente, stavo imparando dal migliore.

Alle volte pensavo che sarei dovuto rimanere accanto a lui, così gli scrivevo e lui mi dava la forza, mi diceva che stava bene, che non dovevo preoccuparmi e che era un’esperienza per diventare sempre più forte. Lui era su un letto da più di un anno, non aveva la forza fisica per fare determinate cose ed era costantemente esposto a nuovi medici, infermieri ed altro, ma la sua forza interiore era forte, molto più forte di quella che aveva la gente vicino a me. A dicembre 2021 iniziò le cure palliative e il 14 dicembre 2021 morì, in silenzio, di notte.

Con questa testimonianza vorrei ricordare quanto da un momento all’altro la vita possa cambiare e possa metterti di fronte a delle sfide più grandi di te. Sfide che non sempre puoi superare e non sempre sai come affrontare al meglio. Per questo è importante donare e trovare i fondi per la Ricerca, per studiare e trovare un modo, una cura per evitare che altre persone, chiunque di noi, possa subire una “condanna” come questa.

Anna Lo Coco

Ringraziamo Anna per questa testimonianza, ci stringiamo a lei nel ricordo del suo papà ed invitiamo chiunque volesse contribuire a sostenere la Ricerca sulla SLA a contattarci direttamente, oppure a scoprire tutti i modi attraverso cui è sempre possibile donare attraverso questa pagina.

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